«In Iraq essere testimoni di Cristo può significare il martirio»

Di Redazione
28 Luglio 2015
Le parole del patriarca dei caldei, Louis Sako, ad un incontro in Italia. «I jihadisti vanno combattuti. Dentro l’islam si deve prendere coscienza del pericolo»

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Articolo tratto dall’Osservatore romano – «Il premio non è per me, ma per la nostra gente sofferente e per l’Iraq, per tutti coloro che cercano la pace e la stabilità e un mondo migliore in cui tutti possano vivere nella gioia e con dignità». È quanto ha dichiarato il patriarca di Baghdad dei Caldei, Louis Raphaël i Sako, che ha ricevuto, lunedì, a Jelsi (Campobasso) il premio internazionale «La Traglia – Etnie e comunità», riconoscimento che ogni anno viene attribuito a una personalità impegnata a valorizzare e a difendere le tradizioni, l’ambiente, i diritti dell’uomo e l’identità culturale e religiosa delle minoranze etniche. All’evento erano presenti, tra gli altri, monsignor Giancarlo Bregantini, arcivescovo di Campobasso-Boiano, monsignor Giulio Mencuccini, vescovo di Sanggau (Indonesia), padre Ciro Benedettini, vicedirettore della Sala stampa della Santa Sede, l’ambasciatore dell’Iraq presso la Santa Sede, Habeeb Mohammed Hadi Ali Al-Sadr, il sindaco di Jelsi, Salvatore D’Amico, e l’ideatore del premio internazionale, Pierluigi Giorgio.

Dal 2003 — ha ricordato il patriarca — 62 chiese sono state attaccate e 1264 sono stati i cristiani uccisi. «In Iraq viviamo il calvario da anni. Una lunga catena di guerre,  una dittatura atroce, un fanatismo diventato terrorismo. Un jihadista crede di avere Dio (Allah) dalla sua parte. È un pericolo per tutti. Perciò questi jihadisti — ha proseguito — devono essere combattuti in modo sistematico ma anche la loro ideologia deve essere sconfitta. Dentro l’islam si deve prendere coscienza del pericolo». Secondo il patriarca, in Iraq «manca un approccio culturale rispettoso della pluralità e dell’intelligenza di questo Paese», dove viveva una popolazione fra le più istruite della regione: «Ci vuole un cambiamento di mentalità con programmi di educazione religiosa aggiornati». Monsignor Sako ha auspicato anche che ci siano maggiori elementi di laicità nello Stato: «Tutti i cittadini devono avere uguali diritti e doveri, nonostante la loro religione».

Il patriarca si è soffermato sul tema del martirio: «Per noi cristiani dell’Iraq — ha spiegato — il martirio è il carisma della nostra Chiesa. In quanto minoranza, siamo di fronte a difficoltà e sacrifici, ma siamo coscienti che essere testimoni di Cristo può significare giungere al martirio». Il patriarca ha ricordato come fede e martirio nella lingua araba hanno la stessa radice: «Shahid wa shahad. Ci ammazzano per la nostra fede. Per noi la fede non è questione ideologica, o speculazione teologica, ma una realtà mistica d’amore. La fede è un incontro personale con Cristo che ci conosce, ci ama e a cui ci doniamo totalmente. Per lui bisogna andare sempre oltre, fino al sacrificio. Non vogliamo abbandonare la nostra patria svuotandola della presenza cristiana. Lì è la nostra storia, l’Iraq è la nostra identità. Abbiamo una vocazione, dobbiamo testimoniare la gioia del Vangelo».

I cristiani iracheni non sono soli: «L’amicizia, la solidarietà e il sostegno dei nostri fratelli e sorelle dell’Occidente ci danno il coraggio di resistere», «sapere che ci siete vicini ci spinge a coltivare una vita comune, in pace e in armonia, con i nostri fratelli musulmani. I quali ci dicono sempre ”voi siete diversi, perché amate, perdonate, siete aperti e pacifici”».

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2 commenti

  1. Raider

    Tariq Ramadan? Chi? Quello dei Fratelli Musulmani? Ma come, non avevano detto, i filo-islamici, che i Fratelli Musulmani sono – come i sauditi, Hamas, la Lega Mondiale Islamica, Abu Mazen – agenti dell’Occidente, del Mossad, del sionismo? E perché dovrebbe essere importante, non diciamo credibile, quello che pensa lui, maestro di dissimulazione coranica (taqyya) e mistificazione islamica per mettere nel sacco l’infedele, nonché fautore di Eurabia, di cui non si dà alcuna pena, mentre compiange come iattura quello che altri islamici e islamofili ritengono, ove convenga, una fortuna, la fine degli Stati-nazioni messi su dagli occidentali, per dar vita a Stati con una omogeneità religiosa, etnica e tribale ovvero la reinstaurazione del Califfato e della Umma?
    Ma l’articolo parla della condizione dei cristiani nel Pakistan: non troppo diversa da quella di altri Paesi dell’Islamistan.
    Ah, ecco perché! Un diversivo, un modo per nascondere la realtà dietro il paravento delle fantasie, sotto il burqa della paranoie anti-occidentali. Nulla di nuovo, sotto la mezzaluna storta: dove prospera l’inganno, dall'”Islam, religione naturale dell’umanità” alla bufala dell'”Islam, religione di pace”, alla porcata delle “religioni del Libro” all’arlecchinata dei “fratelli in Abramo.”

  2. Al_Qantarah

    Due mappe ipotetiche pubblicate una sulla rivista The Armed Forces Journal, nel giugno del 2006, a corredo di un articolo del colonnello a riposo Ralph Peters e l’altra dalla giornalista specializzata in geopolitica Robin Wright, autrice del volume “Rock the Casbah: Rage and Rebellion Across the Islamic World” e analista del United States Institute of Peace and the Wilson Center, pubblicata sul New York Times del 28 settembre 2013, quindi molto più recente, mostrano come evolverebbe, al termine del caotico terremoto in corso, l’area: dai cinque paesi attuali (Siria, Libia, Yemen, Iraq, Arabia Saudita) ne verrebbero fuori quattordici. Senza calcolare la possibilità della eventuale creazione di una città Stato: Misurata.
    Secondo il pensiero di Tariq Ramadan, la rivolta siriana, inizialmente la meno prevedibile di tutte, avrebbe soltanto moltiplicato, nella regione, i fronti, le contrapposizioni ed anche, purtroppo, i rischi, il caos e le stragi.

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