
La preghiera del mattino (2011-2017)
«I ribelli? Le armi chimiche? Le stragi di civili? Venite con me e vedrete»
L’inviato del Giornale Gian Micalessin ha scritto un reportage da Jobar, ottocento metri dal centro di Damasco. Micalessin, su tempi.it, prima di partire per la Siria, aveva già espresso tutti i suoi dubbi sull’intervento armato e messo in luce le contraddizioni delle notizie sull’uso di armi chimiche.
Qui di seguito riportiamo alcuni passaggi del suo articolo, in cui Micalessin – accompagnato da militari dell’esercito – si aggira nelle zone calde della città.
«Benvenuti all’inferno», Abu Abib un ufficiale con la scritta «operazioni speciali» sulla mimetica ci accoglie ghignando nel suo nido protetto da palizzate di cemento e fortificazioni. È qui da sei mesi, conosce ogni angolo, ogni insidia, ogni trappola di questa linea del fronte. Siamo alle porte del sobborgo commerciale di Jobar, est di Damasco, ad appena ottocento metri dal centro. Qui case e palazzi non sono manco periferia. Eppure già qui immagini e panorami fanno pensare a una Stalingrado mediorientale. Per Abi Abib parole e discorsi contano poco. «I ribelli? Le armi chimiche? Le stragi di civili? Venite con me e vedrete». Con lui alla guida scortati da un pick up su cui troneggia una mitragliatrice 12,7 russa c’infiliamo nei cunicoli scavati tra terrapieni e case sventrate. Attorno non c’è un anima, solo l’immagine tetra di ogni guerra. Pali e lampioni abbattuti, case sventrate dove i muri caduti tra appartamenti limitrofi consentono di muoversi al riparo dai cecchini e dagli occhi del nemico. Con Abu Abib davanti e i suoi uomini dietro avanziamo a piedi per altri cinquecento metri. Poi sbuchiamo in uno slargo dove il relitto di un autobus blocca la strade verso il sud di Jobar. «Fino a due settimane fa qua sventolava la bandiera nera di Al Nusra e di Al Qaida. Guarda dietro l’autobus… c’è un tunnel largo tre metri, lo usavano per spostarsi avanti e indietro dal villaggio di Ain Therma, trecento metri più in là. Il segno distintivo di Al Qaida lo trovi pochi passi più in là. È una trappola esplosiva simile a quelle usate per far saltare i nostri militari in Afghanistan. «I miei soldati – spiega Abu Abib – le hanno trovate ovunque, qui attorno è infestato. Assieme ai cecchini e ai kamikaze sono la loro arma preferita».
Abu Abib non si ferma. «Ora ti porto fino al lato sud di Jobar, ormai li abbiamo spinti indietro fin là. In due mesi abbiamo completamente ribaltato la situazione sul terreno». Ora però avanzare è un rischio continuo. A ogni crocevia i colpi dei cecchini bersagliano la nostra fila. Uno sfiora il comandante e i suoi uomini alla testa del gruppo. Lui fa segno di fermarsi, indica un’abitazione diroccata. C’infiliamo tra i ganci di un ex frigo di macelleria trasformato in un posto d’osservazione. Abu Abib osserva l’area da cui sono partiti i colpi, parla alla radio. Cinque minuti dopo, un colpo di mortaio s’abbatte sulle postazioni nemiche. Avanziamo ancora. Ora siamo sulla primissima linea. Nell’aria c’è lezzo di cadavere. Una trincea di terra smossa si congiunge a un rudere sforacchiato dai colpi, collegato a sua volta alle cantine di altre macerie. Scivoliamo in quell’antro, strisciamo verso alcune feritoie. Abu Abib tende il dito verso un palazzone sventrato. «Sono là dentro, è la loro ultima tana». Saranno duecento metri anche meno. Abu Abib ti guarda e sorride. «Ora hai capito come combattiamo qui? Voi giornalisti e le vostre balle delle armi chimiche mi fate ridere. Pensi che se usassi i gas per snidarli da quei palazzi me la caverei? Moriremmo noi e loro. Ma noi non vogliamo morire, vogliamo solo buttarli fuori di lì…e per farlo ci bastano le armi che usiamo ogni giorno. Ci bastano e ci avanzano. Fino a due mesi fa avevamo l’ordine di non attaccare, di creare una barriera per difendere Damasco e impedir loro di minacciare il centro. Ma poi gli ordini sono cambiati e in poche settimane abbiamo riconquistato gran parte di Jobar. Se avessimo voluto usare le armi chimiche lo avremmo fatto all’inizio dell’offensiva. La verità è che qui le armi chimiche non servono a nulla. Qui bastano un po’ di coraggio e i nostri kalashnikov».
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2 commenti
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L’unità di Abu Abib attribuisce eccessiva importanza alla conquista del territorio.
«Fino a due settimane fa qua sventolava la bandiera nera di Al Nusra e di Al Qaida.»
«…ormai li abbiamo spinti indietro fin là. In due mesi abbiamo completamente ribaltato la situazione sul terreno».
«Sono là dentro, è la loro ultima tana».
Occorrerebbe da maggiore importanza all’entità delle perdite inflitte al nemico. Della quale, invece, non si fa minimamente cenno.
Arm-chair strategist?