
Il Deserto dei Tartari
Perché Bob Dylan ha annientato il Nobel per la letteratura
Grande, immenso, superlativo Bob Dylan. Quando, alla fine di ottobre, si è diffusa la notizia che il Comitato di Stoccolma aveva assegnato il Nobel per la letteratura al cantautore americano, avevo fatto, come tanti, della scontatissima ironia. «A febbraio Andrea Camilleri vincerà Sanremo e un Grammy Award lo attribuiranno a Philip Roth», avevo scritto. Ma adesso che il “menestrello del rock” (qualcuno mi spieghi il significato del soprannome, i menestrelli cantavano a corte, a quali corti ha cantato Bob Dylan?) ha reso nota la sua decisione di non presentarsi alla premiazione prevista per il 10 dicembre, dico: il Nobel a Dylan è un dono della Provvidenza, un’astuzia divina ha spinto i membri dell’Accademia di Svezia a una scelta che coincide con la loro autodistruzione. Dio fa impazzire coloro che vuole perdere, dicevano i latini. E con la loro folle decisione di premiare un cantante come massimo letterato della sua epoca gli accademici svedesi si sono suicidati in quanto prestigiosa istituzione che assegna il premio letterario più ambìto del mondo. Perché non era mai successo che il premiato snobbasse il premio e soprattutto coloro che lo assegnano.
Sì, è vero, nel 1964 Jean-Paul Sartre non solo non andò a ricevere il Nobel per la letteratura, ma lo rifiutò per ragioni politiche. Bob Dylan ha fatto di più e di meglio: ha snobbato il Nobel. Col suo rifiuto, Sartre aveva obiettivamente rafforzato il prestigio del premio, perché lo aveva consacrato come massima istituzione culturale del sistema internazionale che lui voleva vedere ribaltato in vista dell’instaurazione del socialismo. Invece la degnazione con cui Dylan ha accolto l’assegnazione del premio a sé e la beffarda cortesia con cui ringrazia ma fa sapere che quel giorno non potrà esserci perché ha già degli impegni, rappresentano il più efficace e definitivo disconoscimento dell’autorevolezza di coloro che quel premio gestiscono. Altro che Sartre, il vero rivoluzionario, il vero anticonformista è Bob Dylan. È lui che rovescia il sistema.
Da oggi in avanti, il comitato che assegna il Nobel per la letteratura non è più il consesso che detiene l’esclusiva dei criteri con cui si stabilisce chi è il più grande scrittore/scrittrice del mondo. È semplicemente un club di signori e signore svedesi che rappresentano solo se stessi e i loro discutibili gusti. Gusti che negli ultimi trent’anni, diciamo a partire dal Nobel al nigeriano Wole Soyinka nel 1986, sono stati spesso dibattuti e criticati. Fa specie che nei quarant’anni fra il 1976, anno in cui fu premiato Saul Bellow, e quest’anno, un solo scrittore autenticamente americano sia stato premiato, anzi una scrittrice: Toni Morrison nel 1993. Sì, è vero sono stati premiati due cittadini americani come Isaac Singer nel 1978 e Iosif Brodskij nel 1987, ma il primo scriveva in yiddish ed esprimeva il mondo ebraico dell’Europa centrale prima dell’Olocausto, il secondo ha scritto tutte le cose più importanti in russo ed è stato premiato come dissidente del sistema sovietico, che lo espulse nel 1972 dopo innumerevoli angherie. Dunque in realtà gli accademici svedesi hanno scelto negli anni di ignorare gente come Philip Roth, Truman Capote, David Foster Wallace, J.D. Salinger, Cormac McCharty, ecc. per tuffarsi su Dylan. Per alcuni di loro l’occasione è persa per sempre, perché nel frattempo sono morti.
In realtà però le polemiche sulle scelte dei giurati di Stoccolma hanno fatto il gioco dell’Accademia, che poteva presentarsi contemporaneamente come massima istituzione ufficiale e come avanguardia capace di rompere gli schemi e di sorprendere. Il giochino di fare gli istituzionali e i ribelli contemporaneamente è durato trent’anni, fino a quando i saggi svedesi hanno fatto l’errore di compiacersi dell’ennesima trasgressione indicando come vincitore Dylan. È come se lui avesse reagito dicendo: «Credete di essere anticonformisti e innovatori perché premiate un cantautore? Adesso vi faccio vedere io che cosa vuol dire essere anticonformisti». Per quelli di Stoccolma l’anticonformismo è una pedagogia e loro ne sono i maestri: insegnano al popolo ad evolvere e a raffinarsi attribuendo a sé l’esclusiva del compito di modificare nel tempo i canoni di giudizio. Per Dylan e quelli come lui l’anticonformismo è la testimonianza personale di rilievo pubblico da parte di chi non si lascia massificare. Di conseguenza, anticonformismo non è far fare a tutti un passo in avanti nella direzione decisa da una élite, ma agire in coerenza con la propria origine che non è riducibile a quella di altri, il che comporta anche abbassare qualcuno: in questo caso i dottori di Stoccolma. L’anticonformismo di chi assegna il Nobel mira a produrre un nuovo conformismo, quello di Dylan enfatizza e allarga le differenze, scombina le classifiche dell’autorevolezza abbassando alcuni e innalzando altri.
E qui arriviamo alla questione più importante: perché Bob Dylan si sta comportando così, perché ha preso di punta i soloni svedesi. No, non per snobismo, o per farsi notare di più, o perché ha un carattere bizzoso come tutte le rockstar. Lo ha fatto per proteggere se stesso, la propria persona. Lo ha fatto per rivendicare la persona contro il ruolo, la realtà contro il simbolo, la vera realizzazione di sé contro l’alienazione; lo ha fatto per non essere usato, per non essere strumentalizzato. Usato da chi e per cosa, strumentalizzato da chi e per cosa? Dai membri del comitato di Stoccolma, che lo premiano per premiare se stessi e la propria arguta intelligenza. Il premio è il modo in cui gli svedesi vampirizzano le qualità di una persona per aumentare di importanza se stessi. E qui qualcuno risponderà: ma un cantante che incide dischi, tiene concerti e che ha scritto qualche libro di poesie già si espone alla trasformazione della propria concreta persona in simbolo, in astrazione che serve bisogni altrui, emotivi, estetici, sociologici. Già, ma Dylan è anche uno di quegli uomini di spettacolo che davanti a 50 mila persone che lo acclamano è capace di rifiutare il bis di una canzone, uno che non sempre suona “Blowing in the wind” al concerto, pur sapendo che tutti quelli che sono lì hanno pagato il biglietto anche per quello. È come se dicesse: «Sono una persona, non sono il vostro sogno realizzato, sono gentile o imprevedibile, scontroso o comprensivo, come una persona in carne e ossa, non sono il vostro juke-box».
Questa è la più grande lezione che un artista e uomo di spettacolo può impartire al pubblico di adoratori e detrattori. Lezione che impartisce non come personaggio pubblico, ma come persona in carne e ossa: siate voi stessi, non siate un ruolo. Lo ha spiegato bene Adam Kirsch (poeta e scrittore) sul New York Times di tre settimane fa: «Essere un laureato del Nobel significa permettere alla “gente” di definire chi si è, diventare un oggetto e una figura pubblica piuttosto che un individuo libero. Il Premio Nobel è l’esempio definitivo di che cos’è malafede: un piccolo gruppo di critici svedesi finge di essere la voce di Dio, e il pubblico finge che il vincitore del Nobel sia l’incarnazione della letteratura. Tutta questa simulazione è l’opposto del vero spirito della letteratura, che vive solo in incontri personali fra il lettore e l’autore. Mr. Dylan può accettare il premio, ma fino a questo momento il suo rifiuto di accettare l’autorità dell’Accademia di Svezia è stato una magnifica dimostrazione di come si manifesta la vera libertà artistica e filosofica».
La lezione può essere interpretata in termini esistenzialisti sartriani, come fa Kirsch nel suo commento, cioè come ribellione dell’individuo che vuole mantenere intatta la sua libertà di ridefinirsi e di crearsi, senza sottomettersi alle definizioni e ridefinizioni che di lui vorrebbe dare la società. Oppure può essere interpretata in termini religiosi, come ribellione ai falsi idoli del successo, del consenso sociale, dei valori dominanti, per mantenere se stessi aperti alla chiamata del vero Dio. La religiosità di Bob Dylan, come molte altre cose della sua vita, non è oggettivabile di fronte allo sguardo altrui. Resta il fatto che dopo le polemiche intorno alla sua presunta conversione al cristianesimo pentecostale dichiarò: «Non credo di essere mai stato un agnostico. Ho sempre pensato che c’è una potenza superiore, che questo non è il mondo definitivo e che c’è un mondo che deve venire».
Foto Ansa
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