
Lettere dalla fine del mondo
La pastorale dell’istante. Cosa ho imparato in ventidue anni di missione
Quando sono arrivato in Paraguay mi sono messo le mani nei capelli, tanto era il disordine e la sporcizia che mi circondavano. Subito mi sono domandato: a cosa servono in questa situazione tutta la teologia e la filosofia studiata durante gli anni del seminario? Leggendo un libro di uno dei gesuiti che hanno vissuto le Riduzioni mi sono reso conto di quanto predicare, educare solamente a parole non sarebbe servito a niente, se non fosse stata la mia vita a parlare. Padre Paramas, l’autore del libro La Repubblica di Platone e i Guaranì affermava: «Gli indios non hanno la capacità di astrazione ma di imitazione e quindi è necessario educarli a guardare, a vedere, a fare esperienza della realtà». Ed è stato così che, spinto da questa verità, ho deciso che la mia unica pastorale sarebbe stata quella dell’istante, cioè mostrare a questi figli perché e come ogni particolare avesse a che fare con il Mistero. La divisione tra la fede ereditata e la vita era abissale. Approfittando della catechesi e delle omelie mi sono preoccupato, a partire dal 1989 fino a oggi, di mostrare che l’Avvenimento cristiano ha a che fare con la vita quotidiana, ovvero di testimoniare loro che il cristianesimo rende umane e belle tutte le cose.
Il libro Cristo e il lavandino (Lindau-Tempi) è una piccola sintesi delle tante catechesi fatte per educare questo popolo, il mio, a una fede viva che cambia la qualità della vita. Per questo in parrocchia non solo non c’è disordine né sporcizia, ma tutto rimanda al Mistero e alla sua bellezza. Un giorno è venuta la superiora generale di una congregazione e osservando la bellezza di ciascun dettaglio ha detto: «Qui si sente viva la presenza del Mistero, perché la bellezza che si tocca con mano parla solo di Lui. Dio è bellezza e dove questa esiste lì è più semplice riconoscere la Sua infinita presenza». Il più grande giornalista del Paraguay, gnostico ed ebreo, ha testimoniato lo stesso dopo aver visitato la clinica San Riccardo Pampuri: «Se quello che ho visto con i miei occhi e ascoltato con le mie orecchie è Dio, allora anche io posso credere nella sua esistenza».
La catechesi non solo parrocchiale, ma rivolta anche agli operai che lavorano nelle varie opere e a quelli di una multinazionale che ci hanno chiesto aiuto perché affascinati dall’ambiente nel quale viviamo, ha come unico fine quello di mostrare come la bellezza sia il segno più potente della Sua presenza. All’inizio non è stato facile perché nessuno poteva credere che la fede e la vita camminassero unite. Esisteva un disordine terribile, che era il modo normale di vivere. Quando siamo arrivati, nella parrocchia dominavano la convivenza o il concubinato ed era normale vivere in questo modo. Ma con il passare del tempo e facendo esperienza di Cristo, molti hanno chiesto di sposarsi con il sacramento del matrimonio.
Non solo, ma hanno cominciato a chiedere: «Padre, aiutaci nella costruzione della casa, nella scelta dei mobili, nella preparazione della cena». C’è stato un momento in cui durante la Messa domenicale, quella dei bambini, portavo in chiesa il letto o un altro oggetto importante della casa, per mostrare a cosa servisse il letto o il perché del materasso, delle lenzuola e come dovesse essere tenuta in ordine la casa e i bambini, imparando con facilità, tornavano a casa e spiegavano ciò che avevano imparato ai propri genitori. Nell’evangelizzazione di questi 22 anni di missione mi ha aiutato molto più mostrare ciò che ho imparato dai miei genitori che i tanti libri di teologia. E la cosa interessante è stata che la gente educata a vivere intensamente il reale nel tempo si rendeva conto dell’urgenza di conoscere Cristo e di chiedere i sacramenti. È stato un cammino lungo, e continua a esserlo, ma dopo 22 anni è nato un popolo che è il grande protagonista delle opere della carità. Un soggetto responsabile e appassionato alle opere che la Misericordia Divina ha fatto e continua a fare tra di noi. I protagonisti della clinica, del collegio, dei ricoveri per anziani… sono loro il popolo umile che si lascia educare. Sono passati 22 lunghi anni, ma adesso è uno spettacolo vederli protagonisti di tutto ciò che esiste a San Rafael. Sono diventati un richiamo continuo a livello educativo per tutti, pazienti e operai. Sono loro che adesso reclamano la pulizia, l’ordine, l’armonia, sia nelle opere sia nelle loro case. Avevano cominciato a chiedere il sacramento del matrimonio senza che nessuno gliene avesse mai parlato. Lo stesso vale per battesimo, cresima, confessione e comunione.
Non esiste particolare che non sia oggetto di attenzione, come testimoniano queste due lettere che alcune persone adulte preparano all’inizio di ogni settimana e che vengono distribuite come testo di catechesi settimanale a coloro che lavorano nelle opere. È un modo di catechizzare molto semplice, ma efficace, perché ognuno nel suo ambito è chiamato a paragonarsi con queste provocazioni, sia a casa sia nel lavoro con noi. Per me è una gioia verificare come dopo 22 anni di missione quello che era un luogo disordinato adesso viene definito da loro «l’ingresso del Paradiso». Propongo la lettura di queste lettere perché credo che sia una possibilità positiva anche per il “primo mondo”. «L’amore è una cosa grande, ma è fatto di dettagli», ripeto spesso. È il lavoro che le madri e i padri sono chiamati a vivere con i loro figli. Si educa solamente partendo dalla realtà che, come afferma san Paolo, «È il corpo di Cristo».
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Quando il nostro responsabile ci assegna un compito è necessario portarlo a compimento; quando cuciniamo per la famiglia, oltre che essere un bel gesto, è necessario rispettare il tempo di cottura; quando ci vestiamo, oltre che bello, è necessario farlo in modo completo. Così nello stesso modo, è bello e necessario obbedire a una semplice questione educativa nel momento in cui entriamo in una stanza. Mi spiego meglio: per prima cosa ci fermiamo sulla porta per osservare bene se la stanza è ordinata. La utilizziamo e poi riponiamo tutte le cose in ordine, esattamente come l’abbiamo trovata, pulendo dove abbiamo sporcato e al momento di uscire controlliamo se abbiamo spento il ventilatore, l’aria condizionata, la luce e poi chiudiamo la porta. Il fatto di chiudere la porta è importante per controllare di non avere lasciato inconcluse delle cose, per verificare di avere portato a termine ciò che dovevamo fare. Come diventa indispensabile questa educazione quando si vive con altre persone! Cioè, quando gli spazi sono aree comuni. Non deve mancare questa educazione come atto di rispetto verso chi vive con noi, nello stesso modo in cui rispetto il mio capo e le persone per cui cucino o me stessa, per la maniera in cui mi vesto.
Se lo spreco di energia inutile (e quindi utile per un’altra cosa) e lo spreco di denaro nelle bollette non bastano per spiegare perché sia necessario spegnere il ventilatore, l’aria condizionata e la luce quando si esce da una stanza, questa educazione è la risposta. Se imparo questo amore nell’usare la casa, senza sprechi, non vale più la scusa: «Lascio acceso il ventilatore perché si asciughi il pavimento». Il pavimento, differentemente dall’essere umano, non sente e quindi lasciamo a noi il privilegio di usare il ventilatore; «lascio accesa l’aria condizionata tanto ritorno in un momento», quasi mai questo “momento” significa pochi minuti, la maggior parte delle volte si tratta di ore.
Lettera firmata
Il gesto del cambio di turno è stato proposto nella clinica e in tutte le altre opere di carità, come nelle case per anziani e per bambini, per poter garantire l’unità tra chi vive e chi ci lavora. L’unità tra di noi è il fondamento di tutte le opere e si forgia nel lavoro personale, quello di guardare nella stessa direzione, cioè nel porre il cuore nello stesso luogo in cui l’altro ripone il suo: in Cristo. Per questo, come dice Gesù, il gesto di unirci a “domandare” quando cominciamo il lavoro e “ringraziare” quando lo abbiamo terminato, ci dà certezza della Sua grande presenza tra di noi, che ci rende capaci di mantenerci in piedi in mezzo alle agitazioni della giornata. Raccontava un’amica: «Quando prego prima di cominciare a lavorare, i problemi che sorgono durante la giornata si fanno più sopportabili e più risolvibili. Quando non prego succede tutto il contrario; nonostante ciò, pur avendo fatto esperienza di questo, senza rendermene conto, mi faccio risucchiare dalla quantità di lavoro che mi aspetta, dall’ansia che mi provoca e non faccio memoria del bene che porta con sé la preghiera».
Un’altra amica: «Solo quando, con la mia collega, prego davanti al Santissimo prima di iniziare un turno, il lavorare insieme diventa un respiro e gli inconvenienti del giorno non ci schiacciano. Il lavoro diventa più piacevole quando tutte e due guardiamo nella stessa direzione, cioè, quando ci ricordiamo per chi e con chi lavoriamo».
Per questa ragione è importante essere fedeli a questo gesto, in cui in due o più ci riuniamo per chiedere la grazia di guardare il malato, l’anziano, il bambino con gli stessi occhi con cui Cristo ci guarda, per guardare come sono guardato. Il cambio di turno vuole ricordarmi che più in là dei miei limiti, dei miei difetti, del mio stato d’animo, dei miei meriti, io sono una dipendenza, una relazione con il Mistero, un “Io sono Tu che mi fai”.
Quindi, rispetto a tale gesto: lo faccio per compiere un’imposizione o per abitudine, senza entrare in rapporto con una presenza che mi invita a riconoscerlo in tutti i particolari e dettagli della realtà o semplicemente non lo faccio perché mi risulta una perdita di tempo?
La fedeltà a questo gesto si verifica nella maniera in cui vivo intensamente il reale.
Lettera firmata
15/2012
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2 commenti
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senta, io vorrei farle i miei complimenti piu’ vivi, perche’ Lei, mio caro, ha scritto un’opera d’arte.
grazie Guarani’!
volevo dire karai!
grazie