Tremende bazzecole

Chesterton ci chiama al voto, subito. Occorre votarsi alle cose, come reclute coraggiose

“Non è possibile uscire dal pericolo

se non per una via pericolosa”

G. Chesterton

«La chiamata da fare all’uomo di oggi è quella che si fa quando scoppia una grande guerra o una grande rivoluzione. Se anche la tromba emette un suono incerto, deve essere inconfondibilmente il suono di una tromba. Il megafono del semplice autocompiacimento mercantile ha solo un volume alto e non è affatto chiaro. Il prossimo fattore da prendere in considerazione è la necessità di un’azione individuale e indipendente su larga scala. Questa esigenza va annunciata come il bisogno di reclute in tempo di guerra». (G. K. Chesterton, da Il profilo della ragionevolezza)

Noi non siamo e non siamo stati in guerra. Non c’è stato un qualche Pyongyang a mettere in bella mostra il suo arsenale, a fare minacce più o meno plausibili e a perpetrare poi con esplosioni e attacchi la sua volontà di scontro. No, lo scontro con un nemico chiaro non c’è stato. Non si sono viste trincee, eppure da ogni parte si documenta la distruzione. Portiamo i segni della devastazione, ma di una guerra in cui non abbiamo combattuto. Si sentono grida scompigliate, ma sembrano quelle di fine battaglia, quando, allo stremo, si va avanti ormai alla cieca. E sentiamo: «Non c’è più tempo, è tardi!» – oppure: «Siamo ormai alla fine» – oppure: «C’è bisogno di fare in fretta!».

Ma chi è il mio nemico? Lo spread? La politica insolvente? La crisi globale? E poi: dove e quando è esattamente arrivato questo attacco? Se ora è tardi, c’è stato un momento in cui potevo difendermi? Difendermi, poi, da che e da chi? «Il rapporto che corre tra l’uomo e i moderni schemi e sistemi, tra l’uomo e le istituzioni che lo governano e le influenze internazionali in cui esse si dilatano è molto simile ai rapporti che avrebbe un uomo il quale vivesse come un pigmeo in una città di giganti. Abbiamo perduto la forza di controllare le cose, più che altro perché abbiamo perduto la capacità di osservarle, vale a dire di vederle nel loro insieme. I disastri economici in cui incorriamo sono largamente dovuti al fatto che le operazioni sono diventate troppo grandi per gli operatori. Siamo tutti dispersi come spilli infilati in un’immensa mappa di affari finanziari, o meglio di finanziaria strategia; ed è una planimetria o mappa di gran lunga troppo vasta e complessa oggi perché possa venire dominata da una pubblica opinione, e così gli spilli non sono in grado di usare la propria capocchia, ovvero il proprio cervello». Non è una citazione presa dal quotidiano di ieri, ma è una riflessione che scrisse il signor Chesterton nel 1933. E descrive esattamente come mi sento io alla fine di ogni telegiornale: il cervello prova a mettersi in moto, prova a seguire il filo dei discorsi su Moody’s e Standard and Poor’s, va dietro all’indignazione che si solleva istantaneamente sentendo parlare di paradisi fiscali – ma poi si arena lì, come un goffo cetaceo spiaggiato, che è semplicemente fuori posto e agonizzante.

Ma poche settimane fa il mio cervello ha funzionato bene, e svelto, non appena mi sono accorta che qualcuno aveva tentato di scassinare il garage di casa. E quel qualcuno lo aveva fatto anche nei garage dei miei vicini. E il cervello di tutti è stato pronto e reattivo. Da tre anni vivo in questa strada e niente di più c’era stato tra me e i miei vicini della rispettosa neutralità dei «buongiorno – buonasera». È bastato un buco fatto in modo rudimentale con un cacciavite nella lamiera dei nostri portoni a far sì che nel giro di dieci minuti tutti avessimo il numero di cellulare di tutti, passando dal «lei» al «tu» senza chiedere permesso, ci scambiassimo opinioni su allarmi e serrature con la familiarità di amici di vecchia data. È accaduto che il signor Rossi, riferendo al signor Bianchi il confronto appena avuto col signor Verdi, parlasse con la più fiera naturalezza di proposte e interventi fatte da un «noi». Prevedo un’obiezione a questo mio discorso, o meglio, la metto già nel conto: so bene che, passato lo spauracchio dei ladri, torneremo – forse – alla rispettosa neutralità dei «buongiorno – buonasera», ma contesto, invece, chi volesse insinuare che questa reazione di spontanea aggregazione e condivisione è qualcosa di irrilevante, perché dettata non da un moto di Generoso e Universale Altruismo, ma dalla pura, semplice e tangibile paura. È proprio questo il bello della nostra sana anima umana! Noi non siamo bravi e teorici, ma siamo imperfetti e intraprendenti. Non sarà mai una vaga teoria buonista a unirci in un vincolo di fratellanza, ma è assai probabile che una paura concreta ci faccia vincere quella nostra naturale grettezza egoistica, per lasciarci intravedere – anche solo in rari momenti di pericolo – che quella creatura strana che ci sta accanto sul lavoro o sul pianerottolo è un nostro simile.

Le alleanze sono il punto forte dell’uomo, ma non penso a quelle elettorali in vista del voto; il punto forte sono le alleanze strette tra uomini che si votano a ciò che sentono il bisogno di difendere. In un campo di battaglia che sta in un ritaglio di terra preciso, sotto la luce del sole, in nome di qualcosa da difendere gli uomini non si tirano indietro e ciò che li spinge anche verso il pericolo di una guerra è quella certezza antica che scombina la legge dei grandi numeri; è quella certezza che conosce bene chi, trovandosi in pericolo, sa che razza di distanza abissale intercorre tra l’essere solo e l’avere qualcuno accanto. «Non ci sono parole sufficienti ad esprimere l’abisso che intercorre tra l’isolamento e l’avere un alleato. Possiamo concedere ai matematici che quattro sia il doppio di due; ma due non è il doppio di uno: due è duemila volta uno. Ecco perché, nonostante cento svantaggi, il mondo ritornerà sempre alla monogamia» (G. K. Chesterton, L’uomo che fu giovedì). Io sicuramente mi perdo quando qualcuno si mette a parlare del fatto che il prossimo mese andranno in scadenza non-so-quanti-milioni di BOT, ma questo ragionamento sul fatto che essere in due è sentirsi duemila volte uno lo capisco, e bene.

Essere in quattro, o cinque, o mille è già diverso; perché è più rassicurante. Ma due è bello e pericoloso: quando sei solo, hai un buon motivo per alzare le braccia e arrenderti, ma due è un’ipotesi di costruzione insieme che sostiene il coraggio di lanciarsi anche in un attacco dall’esito non scontato. Però, fino a qualche giorno fa avrei ritenuto quella specificazione sulla monogamia che fa Chesterton non così necessaria. Poi, invece, è stata la prima cosa a cui ho pensato quando ho saputo dei coniugi di Civitanova Marche che si sono suicidati. Lui esodato e lei con la pensione minima: uccisi dai debiti, uccisi dalla crisi – si congela e si cataloga così questo ennesimo caso di drammatica e volontaria rinuncia all’esistere. Il nostro problema è diventato quello dei due che si sentono uno e uno, degli addendi che non si sentono più parte di un’operazione comune possibile.

A Chesterton capitò l’opposto, uno dei fatti che affrettò il matrimonio con la sua consorte fu una tragedia, la morte in un incidente stradale della sorella di lei. Scrivendo alla sua futura moglie una lettera su questo lutto che l’aveva segnata in modo disperato, le disse che non sapeva che nome dare a quella morte se non quello di «prezioso». Non bastava dire «è qualcosa di tremendo e tragico», non bastava neppure consolarsi pensando che un giorno si sarebbe arrivati a dire «questa morte ha portato nel tempo un frutto buono». L’unica ipotesi per non arrendersi e cedere era fare una scommessa nel presente, essere audaci al punto da dire «prezioso» (cioè: quel che è accaduto e quel che accadrà va custodito nell’interezza del suo clamore), perché l’unica alternativa a questo era l’ombra onnivora della disperazione, il niente in tutto e dappertutto. L’ipotesi di chiamare «preziosa» l’esperienza mette tutto in subbuglio, perché dalle dure e nette categorie di «bene» e «male» si passa all’ipotesi che tutto sia in pericolo; questo sconvolge gli equilibri di bilanci solo negativi (o positivi), ed è un’ipotesi che per essere sostenuta chiede un’alleanza, un vincolo che opponga alla solitudine reciproca il coraggio temerario di un assalto fatto insieme, verso l’incognita di ciò che viene incontro e – anche – contro.

La logica onnivora e affamata della disperazione è il campo di battaglia (ormai ridottosi a cimitero) in cui il grande orizzonte vago e gigantesco della crisi sembra volerci portare non tanto a combattere, quanto a spegnerci. E l’uomo può accucciarsi fino a morire dentro i grandi bilanci di un’economia che dipinge scenari di macerie a perdita d’occhio. Può accucciarsi fino a perdere di vista l’evidenza che il suo campo di battaglia non è e non è mai stato questo gigantesco impero di ombra, bensì continua a essere il pezzo di strada e di terra dove egli abita e dove spera, fatica e piange. E in questo spazio piccolo l’uomo ha un grande vantaggio: quello di chi, sentendosi in pericolo, può ancora scegliere di mettersi per una via pericolosa e non disperata. È l’intraprendenza che suscita azioni anche mortali, ma segnate da un sacrificio fecondo come quello di Leonida alle Termopili, che sovvertì la legge dei grandi numeri riportando il conflitto lì dove è giusto che sia, lì dove l’esito del tutto è ancora da vedere: un ritaglio di terra preciso e una battaglia da combattere corpo a corpo, e a fianco di qualcuno.

@AlisaTeggi

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2 commenti

  1. Marco

    Io ho già stampato l’articolo, l’ho messo in bagno sul portaroroli. Un posto per ogni cosa, ogni cosa a suo posto.

  2. Marco

    Grazie mille Annalisa.
    Domani in ufficio stampo quello che hai scritto e lo appendo sul frigorifero!!!!
    Viva Chesterton.

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